Le Valli di Comacchio sono un'oasi in mezzo alla pressoché ininterrotta distesa di ombrelloni, che da Venezia ad Ancona ha ormai asfissiato l’Adriatico. Oasi pagata a duro prezzo, il Polesine è terra dal passato infame per gli uomini che hanno dovuto sopravvivere in queste paludi malsane e poverissime. Oggi che la presenza umana è sostanzialmente confinata a poche attività di pesca che si ostinano a sopravvivere, la distesa di argini, boschi, acquitrini è una meta perfetta per il ciclo turismo. Percorrerla a piedi è tutt’altra storia, i punti di appoggio sono pressoché inesistenti e le temperature, in estate, proibitive. Erano queste le preoccupazioni principali che mi frullavano in testa domenica 21 luglio, in tempo di anticiclone africano. C’era poi un altro aspetto, squisitamente tecnico. Ero reduce da meno di un mese dalla LUT, 120 chilometri montani, poco corribili, tutto il contrario di quanto avrei dovuto affrontare qui.
Il piano era semplice, partire prima dell’alba per godere del clima relativamente mite, comunque 25°C alla partenza alle ore 5.30, sfuggendo così, grazie ad una media prudente, ma accettabile per un percorso con 30 metri di dislivello su 50 km, al solleone di mezza giornata. Piano ideale, naufragato miseramente. I primi 25 km, dalla partenza poco dopo l’imbarcadero di sant’Alberto fino a Comacchio, in effetti son passati tra la meraviglia di un alba da sogno, il panorama inconsueto, la miriade di animali che popolano le valli, anfibi, ungulati e volatili di ogni sorta. Il percorso in questo tratto non presenta difficoltà, i primi 10-12 km sono su asfalto di ottima fattura e scarsa frequentazione, segue poi un lungo traverso su un argine, sentiero in ghiaia o erba, agile per chi avesse da spingere, fino a Comacchio.
In paese le prime sorprese non piacevoli. Contavo in un ristoro, ma è tutto chiuso. Trovo solo una fontanella di acqua, per altro tiepida. Non mi resta che fare due passi per il paese, davvero caratteristico, ed immettermi poi nel tratto più temuto, un lungo tratto di ciclabile asfaltata e a seguire una decina di km sulla statale Romea. Questa strada, fondamentale perché sostanzialmente unica, attraversa il Polesine, da Venezia a Ravenna. Strada pessima, pericolosa e trafficata, sufficientemente larga per ospitare a margine un runner, ma decisamente sgradevole. Se si ha gamba e fiato si percorre nel minor tempo possibile, purtroppo la scarsa preparazione e il caldo presentano il conto. Il passo rallenta, i tempi si dilatano, alla ricerca di un punto a cui attingere acqua, che in una domenica sonnacchiosa di luglio si riduce a un paio di stazioni di servizio malmesse. Finalmente si arriva all’imbocco dell’Argine degli Angeli, uno stretto diaframma artificiale che per 6 km taglia la laguna, dando l’impressione di correre, o pedalare, a fil di mare. Tutto bello se non fosse che l’accesso è sprangato, il punto visitatori del parco, soliti fondi Europei, cade in rovina e solo un pietoso varco nella recinzione mi evita un ampia divagazione. Come nota a margine val la pena di rilevare un itinerario alternativo, più lungo, che vede l’uso della pista ciclabile dei Lidi Ferraresi, da Poro Garibaldi al Lido di Spina, immettendosi poi sulla pista ciclabile che porta all’Argine degli Angeli.
Ad ogni modo, attacco l’Argine con cipiglio combattivo, ma notevole timore. Sono ormai le 10 del mattino, il sole è a picco, non tira un refolo d’aria e il primo albero sta appunto a 6 km, ci sono tutti gli ingredienti per un inferno. Ed infatti la traversata è tutt’altro che agile, la corsa si rivela presto difficoltosa, quasi azzardata, non resta che ripiegare su un passo prudente per passare l’Argine, rifugiandosi a rifiatare nella prima baracca dei pescatori, appena toccata terra, per altro tra stormi di fenicotteri rosa. Così prosegue poi il resto dell’itinerario, poco più di una decina di chilometri su strade sterrate di campagna a margine degli acquitrini, percorsi in condizioni non ideali a goderne la bellezza e a staccare un tempo ragionevole. Solo il premuroso supporto di un pescatore, che mi ha gentilmente fornito più acqua di quella che avevo con me, mi ha consentito di chiudere in sicurezza l’anello in poco meno di 7 ore.
In conclusione, percorso inusuale per il panorama dell’ultra running italiano, ma spettacolare. Ideale in primavera o perché no, inverno. Godendo di un clima mite il tempo registrato può essere agilmente abbattuto, pur con la prudenza di chi deve affrontare ampi tratti senza alcun supporto. Buona corsa.